Pantaloni al polpaccio,
spalle strette e braccia al ginocchio, passava ogni giorno alla solita ora,
camminava senza fermarsi, il basco calzato sul capo fin a coprire gli occhi.
Il suo movimento era ritmato
dal flettersi delle gambe, ad ogni incrocio si fermava…sembrava riflettere ma
era solo una brevissima attesa e uno sguardo furtivo per non essere investito
dai rari veicoli presenti in paese.
I pantaloni corti erano gli
stessi di quando era ragazzo, le scarpe risultavano vecchie e pesanti, il suo
andare metodico, scandito dal tempo che passava lentamente.
I suoi occhi erano vuoti e
persi in uno spazio lontano, Miran lo slavo, Miran il senza patria.
Il lavoro colmava l’assenza
dei ricordi mentre le dita stringevano cazzuola e cupă per preparare la malta ed i suoi gesti sembravano
ripetere un antico rituale…pietra dopo pietra, fila dopo fila, legando i vuoti
con malta fine.
Cercava le pietre lungo
l’argine del torrente o rubandole allo scorrere dei flutti: pietre bianche e ruvide
ma continue al tatto come un vecchio tessuto di lino e canapa…le accarezzava
mentre le sceglieva per valutarne l’uso e parlava loro con tono sommesso mentre
le poneva in un grande fardello.
Pietre bianche combinate a
pietre grigie e nere…a volte i resti di vecchi fondi brillanti di bottiglie
completavano l’innalzarsi di muri e confini.
La sua giornata era
interminabile e la sera, quando la luce non permetteva più il lavoro, Miran
andava a riposare. Con il suo passo saltellante e ritmico rientrava per la
solita via mentre i ragazzini lo rincorrevano per divertirsi e lo apostrofavano
- slavo, slavo, slavo…- ma Miran procedeva con il suo solito sorriso.
E le pettegole sulla porta
si chiedevano…- Ma perché sorride?! La
sua vita può essere migliore della nostra??!-
E lui andava e andava con le sue braccia lunghe e il cappello
calato sulla testa.
Gli anni trascorrevano lenti ed uguali per Miran,
i suoi muretti bianchi e colorati racchiudevano gli spazi del paese come in uno
strano ricamo, quasi un rammendo.
Linee rette, curve e sghembe
si intrecciavano ripetutamente ed il paese sembrava racchiuso da una simmetrica
e precisa ragnatela: immobile nei i suoi confini, con le piccole case racchiuse
in spazi definiti da strade, vicoli,
muri e limiti.
Il suo passo echeggiava sicuro
lungo il vecchio tracciato del paese, ormai trasformato in un labirinto
complicato di cui solo lui conosceva il segreto per entrare ed uscire.
Il paese con il trascorrere
degli anni esaurì ogni risorsa per vivere…
gli abitanti finirono il
mais, i chicchi di grano, gli ortaggi che coltivavano, le semenze…i bambini
affamati non ridevano, non rincorrevano più lo slavo; i vecchi e persino gli
adulti cominciarono a morire pian piano di fame e d’inedia.
Miran proseguì ad innalzare
le sue strane mura che ora non custodivano più case e confini, orti e terreni
ma i corpi di chi continuava a morire.
L’ultimo muro o forse
l’ultimo mucchio sconnesso di pietre Zoran lo innalzò per lui poco prima di lasciarsi
imprigionare dall’ultima parola di questo racconto…
Aliceydulcinea alias Maria Vittoria
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